Intestino e cervello, quella strana coppia

Un dialogo continuo, con il cibo a fare da arbitro. Uno scambio di informazioni che potrebbe svelare nuove soluzioni per il trattamento degli stati depressivi.

Siamo soliti sentir dire che l’intestino è il secondo cervello del corpo umano. Non solo è dotato di una fitta rete nervosa, ma le sue cellule “parlano la stessa lingua” dei neuroni, e la usano, per esempio, per segnalare al cervello, nell’arco di alcuni minuti, la necessità di mangiare o di bere. Tra i due cervelli esisterebbe una vera e propria linea rossa: un canale di comunicazione diretto e istantaneo, per scambiare informazioni nell’arco di millisecondi.  A svelarlo è uno studio pubblicato su Science, che suggerisce la possibilità di nuovi trattamenti per i disturbi alimentari o, per esempio, la depressione.

Due cervelli insieme

L’intestino è dotato di una fitta rete nervosa e si stima che nelle pareti interne del tratto gastrointestinale ci siano più di cento milioni di cellule nervose, praticamente un altro cervello dentro la pancia. Sappiamo da decenni che la comunicazione tra intestino e cervello avviene tramite mediatori chimici – gli ormoni – che, immessi nella circolazione sanguigna, nell’arco di alcuni minuti, raggiungono il cervello. Un esempio è la sensazione di nausea che si può provare prima di un esame o il torpore mentale dopo un pasto abbondante.

Sappiamo anche che un intervento farmacologico sul cervello, come l’assunzione di antidepressivi, può produrre effetti a livello intestinale con nausea e vomito. Allo stesso tempo, diverse malattie intestinali e, in particolare la sindrome del colon irritabile e della disbiosi intestinale sono associate a disturbi di ansia e depressione.

Una fitta relazione tra i due

La relazione bidirezionale tra l’intestino e il cervello consente di regolare varie funzioni, come sazietà, fame e infiammazione. I neuroni del tratto gastrointestinale costituiscono una rete, il sistema nervoso enterico, che può operare autonomamente, ad un livello paragonabile a quello delle reti neuronali dei celenterati. Se non è possibile parlare di cervello intestinale, ha senso considerare la moltitudine di batteri che colonizza il nostro intestino e che interagisce con molte delle nostre funzioni: il microbiota.

L’idea un tempo selvaggia secondo cui i batteri intestinali influenzino la salute mentale si è trasformata in un solido campo di ricerca grazie ad uno studio europeo, pubblicato recentemente su Nature Microbiology, che mette in luce il potenziale neuroattivo del microbioma in associazione alla qualità di vita.

Cibo-Benessere

La rivoluzione agricola e industriale ha prodotto profonde modifiche nella composizione della nostra alimentazione. Da una dieta ad alto contenuto di carboidrati complessi si è passati a una dieta contenente una alta percentuale di grassi e carboidrati semplici, cereali raffinati, zuccheri e oli vegetali.

Cibi in grado di danneggiare il microbiota, ossia l’insieme dei batteri che vivono nel nostro intestino. “Il microbiota è un organo custodito nel nostro intestino, costituito da batteri che mangiano ciò che noi mangiamo” afferma il dottor Pier Luigi Rossi, autore del libro “L’intestino. Il sesto senso del nostro corpo. Alimentazione consapevole e biochimica della gioia”, edito da Aboca. “Quando mangiamo non siamo mai soli, ma in compagnia dei batteri intestinali. Nel caso di un’alimentazione scorretta si selezionano batteri aggressivi, che possono dare molecole che vanno nel sangue e arrivano al cervello, creando un processo di neuro-infiammazione cerebrale, che porta tristezza, depressione, caduta del tono dell’umore e decadimento cognitivo, con perdita di memoria”.

La regola generale del benessere è quella di “mangiare più vegetale e meno animale”. Ma non esistono cibi buoni o cattivi in assoluto, ma è come li associamo che li fa diventare salutari o dannosi.

I futuri sviluppi della ricerca

Continuare ad approfondire le modalità di comunicazione tra intestino e cervello potrebbe aprire promettenti porte per nuove terapie che potrebbero usufruire di probiotici per il trattamento ad esempio della depressione, o aprire nuove prospettive metodologiche in grado di isolare all’interno del microbioma quei marker che potrebbero contribuire allo sviluppo di un profilo biologico sempre più accurato delle patologie mentali.