Giovane e sano non vuol dire “immune”

Anche questa categoria può riportare sintomatologie gravi da COVID-19. A giocare il ruolo principale sarebbero anche la genetica e la “carica virale”.

Mettiamo le cose in chiaro: ognuno di noi – giovane o anziano, sano o paziente cronico – può contrarre il virus e sviluppare sintomi gravi. Certo, il profilo tipo del paziente che sviluppa forme gravi dell’infezione è noto (anziano, maschio e con almeno una patologia pregressa), eppure sempre più spesso apprendiamo di giovani prima perfettamente sani finiti in terapia intensiva (non ultimo, Porta a Porta ha dedicato parte della sua trasmissione alla morte per Covid-19 di un giovane romano di 34 anni perfettamente sano e di robusta costituzione) .

Esistono quindi altri fattori, oltre all’età e alle patologie pregresse, che giocano un ruolo nell’esito del virus? Le ricerche si stanno adoperando per scoprirlo. Ad oggi sono due gli “altri fattori”: particelle virali e geni.

Particelle virali, quante?

Il numero medio di particelle virali necessario per stabilire un’infezione in un organismo è chiamato in gergo dose infettiva. Non sappiamo quale sia quella della COVID-19, ma prendendo in considerazione il dato della rapidità con la quale questo virus si propaga, è probabile sia bassa, solo qualche centinaia di migliaia di particelle. A differenza di quanto ipotizzato per i virus dell’influenza e i coronavirus di SARS e MERS, quindi, la dose infettiva del coronavirus SARS-CoV-2 non sembrerebbe legata all’entità dei suoi sintomi.

La carica virale è invece il numero di particelle virali che un individuo positivo ospita e diffonde nell’ambiente. Per rendere più chiare le idee, è esplicativo la metafora riportata sulla rivista “New Scientist” dove ci fa immaginare la “dose infettiva” come la quantità di scintille che ci vuole per accendere un fuoco, e la “carica virale” come la vivacità di quel fuoco.

Quindi chi ha un’elevata carica virale può trasmettere più facilmente il nuovo coronavirus a tutti i suoi contatti. Ciò non significa che sviluppi per forza sintomi più gravi. Sicuramente la ricerca ancora non è arrivata a un pensiero e a una tesi confermata univoca. Alcuni ricerche italiane e cinesi dicono che non ci sarebbero differenze significative tra la carica virale di pazienti con o senza sintomi, o con sintomi gravi o lievi. Al contrario, uno studio condotto a Nanchang, sempre in Cina, ritiene ci sia una forte correlazione tra la quantità di virus presente nel naso dei pazienti con COVID-19 e la gravità dei sintomi.

E i geni?

Abbiamo già detto che il virus non è cambiato granché nel suo profilo genetico, ma allo stesso tempo assistiamo a grandi differenze di sintomi sia tra pazienti colpiti, sia tra nazioni “infestate”. L’obiettivo è quindi quello di confrontare il DNA di persone con forme gravi di COVID-19 ma senza altri fattori di rischio (come diabete, malattie respiratorie o cardiovascolari) con quello di pazienti con forme lievi o asintomatiche dell’infezione.

L’ipotesi più ovvia, spiegata su “Science”, è che possano esserci differenze nei geni che codificano le proteine superficiali Ace-2, ossia quelle che il virus sfrutta per accedere alle cellule delle vie respiratorie. Ecco perché l’allarme dovrebbe scattare subito per almeno i fumatori e i pazienti Bpco. I loro polmoni sembrino ospitare alti livelli dell’enzima Ace-2 che li può rendere più vulnerabili al Covid-19. Questi risultati in parte possono spiegare l’aumento del rischio di gravi Covid-19 in queste categorie ed evidenziano l’importanza di interrompere il vizio del fumo e di una maggiore sorveglianza per le persone che soffrono di asma e patologie respiratorie per la prevenzione e la diagnosi rapida di questa malattia potenzialmente mortale.

Non si escludono anche altre direzioni, come eventuali differenze nei geni che regolano il sistema immunitario e un’ipotesi di studio sui gruppi sanguigni, secondo la quale alcuni gruppi possano avere un effetto protettivo sul contagio.