Dalla voglia di libertà alla paura di viverla

Dopo l’insofferenza iniziale alcuni si sono adattati all’isolamento e ora lo vivono come un rifugio. Un comportamento anomalo che può significare problemi irrisolti.

Dai canti a squarciagola sui balconi, agli occhi puntati sui media in attesa del “via libera”. Sono state tutte piccole strategie di sopravvivenza che hanno contribuito ad allentare la tensione e affrontare questi mesi di quarantena forzata. Ma ora che, seppur con le dovute attenzioni, abbiamo riavuto indietro la nostra libertà, alcuni hanno maturato un pensiero difficile da ammettere: “non voglio più uscire!”

Perché uscire dalla comfort zone?

Da un isolamento imposto, alla comfort zone. In solitudine, ma connessi, non è più un disagio. Anzi, non è poi così raro sentire persone che si sono adattate alla reclusione domestica al punto che ora temono il momento di uscire. Secondo la Società Italiana di Psichiatria sono oltre un milione gli italiani colpiti dalla Sindrome della Capanna o del Prigioniero. Una condizione che attiva stati d’ansia, di paura, tristezza e malessere generale all’idea di uscire di casa, vedere gente o frequentare posti affollati, che può arrivare dopo un periodo di prigionia o isolamento. Proprio quello che è successo con il lockdown.

Chi ha un un funzionamento psicologico più stabile tende ad adattarsi con maggiore facilità a situazioni nuove e riesce a trovare, in modo adattativo, una nuova routine più intima, casalinga, al riparo dai tanti impegni e pressioni quotidiane. Altri, invece, si sono rifugiati in questa situazione per sottrarsi a una routine faticosa che subivano magari senza accorgersene. Sono questi ultimi quelli che ora hanno l’impressione di non essere più in grado di riprendere i ritmi della vita pre-quarantena.

L’esperienza che abbiamo vissuto è sicuramente inedita. Forse una situazione simile potrebbe essere quella di una malattia, anche se la maggior parte di noi, in realtà, ha sofferto solo la libertà tolta, non patologie serie debilitanti. Però proprio come dopo una malattia, questa fase di “ritorno alla normalità” deve essere affrontata come la relativa convalescenza, ossia vissuta per gradi. Nessuno ha pensato che stare molto in casa indebolisce corpo e psiche anche se non si è stati realmente malati. L’isolamento ha anche avuto un effetto tsunami su due categorie essenziali per il funzionamento psichico: lo spazio e il tempo. Lo abbiamo sperimentato tutti: è bastata una settimana di lockdown per farci avvertire come remote e obsolete le abitudini di solo pochi giorni prima. Adesso la mente è bloccata, c’è una sorta di immobilismo psichico – spiegano gli esperti – non dobbiamo contrastare direttamente la paura, altrimenti rischiamo di subirla ancora di più. Bisogna iniziare piano piano a scardinare quelle piccole insicurezze e prendere di nuovo fiducia nel mondo

Libertà o reclusione?

Introversione ed estroversione: sono due aspetti antitetici del funzionamento psicologico che spiega perché, a parità di situazione a cui si è esposti, alcuni la vivono come una liberazione e altri come una prigione. Insieme a queste inclinazioni di base ci sono poi situazioni di disagio di fondo, spesso latenti perché mascherate dal contesto: pensiamo a una personalità con elementi narcisistici lievi che si è vista sottrarre improvvisamente fonti di gratificazione e ammirazione dall’esterno; oppure a chi tende ad avere una dipendenza da qualcuno o qualcosa e si è ritrovato senza l’abituale “porto sicuro”.

Per chi ha avuto le risorse per farlo è stato quasi un periodo di “esame di coscienza”. Non a caso anche i ritiri di silenzio e discernimento delle tradizioni spirituali si modulano su quaranta giorni, una quarantena, appunto.